Kant ed il problema della morale nella Critica della ragion pratica



La legge morale come "fatto della ragione"

Kant si trova difronte al problema della fondazione della morale. Infatti le dottrine tradizionali individuano come fondamenti della morale l'anima e Dio. Tuttavia Kant, avendo giudicato queste idee come illusorie, non può basarsi su di esse.

Risponde a questo interrogativo nella "Critica della ragion pratica" e nella "Fondazione della metafisica dei costumi".

Come aveva fatto anche nella sfera della conoscenza, anche per la sfera della morale Kant cerca di trovare le condizioni a priori necessarie ed universali che la rendono possibile, quindi indipendentemente da sesso, religione, usi e costumi. Tali condizioni non possono risiedere nella sensibilità, perché è radicata nelle inclinazioni individuali. Infatti risiedono nella ragione come "legge morale". Essa non necessità di una dimostrazione, bensì alla forma di comando, in quanto deve imporre i propri imperativi che sono mirati a regolare la tensione tra istinto e ragione che caratterizza l'uomo. Infatti se si facesse prevalere uno di questi due aspetti, verrebbe meno l'utilità della morale: seguendo l'istinto l'uomo agirebbe come un animale e seguendo la ragione l'uomo farebbe parte della dimensione della santità. A tal proposito Kant condanna il fanatismo religioso, perché quest'ultimo erroneamente non accetta la natura imperfetta e limitata dell'uomo volendo a tutti i costi inseguire una condizione di perfezione morale.


Gli imperativi della ragione

Kant distingue la ragione tra uso pratico e teoretico. In tutti e due i casi viene superata l'esperienza, ma nell'uso teoretico viene condannato dal filosofo il fatto di distaccarsi dall'esperienza per inseguire le illusioni metafisiche, mentre nell'uso pratico viene esaltato dal filosofo il fatto che vi sia indipendenza rispetto all'esperienza.

La ragion partica coincide con la volontà, ossia la facoltà di agire sulla base di principi normativi. Questi principi possono essere di due tipi: massime e imperativi. Le massime sono prescrizioni di carattere soggettivo, ossia valide per l'individuo particolare che le segue (ad esempio moderarsi il cibo o non fumare), mentre gli imperativi sono prescrizioni di carattere oggettivo, ossia validi per tutti. Gli imperativi a loro volta sono distinti in ipotetici e categorici. Gli ipotetici hanno la forma del "se... / allora..." quindi prescrivono un'azione in vista del raggiungimento di un determinato fine che non è detto venga condiviso da tutti. Mancando di universalità, l'imperativo ipotetico non può stare a fondamento della morale. I categorici invece sono incondizionati, ossia comandano un'azione a prescindere dal fine che ne può conseguire. Proprio per la loro universalità, Kant li ritiene fondamento della moralità. Secondo la teoria di Kant, se conduco una vita esemplare mirando ad un determinato fine (come l'approvazione sociale) non sto agendo in maniera morale, mentre se conduco una vita esemplare senza secondi fini, agisco in maniera morale.

Kant crede sia sbagliato associare l'etica alla ricerca della felicità: la felicità infatti dipende da una serie di circostanze esterne o interiori, quindi se fosse assunta come fine delle proprie azioni, impedirebbe l'agire in maniera morale.


Il criterio dell'universalizzazione e l'imperativo categorico

L'etica kantiana è un'etica del dovere / deontologica, ossia è categorico e non ipotetica. Ciò che devo fare è:

- incondizionato (lo faccio in vista della legge e non in vista di un bene);

- formalistico (non prescrive il contenuto di ciò che dobbiamo fare, ma solo la sua forma a priori).

Tuttavia sorge spontaneo chiedersi come sia possibile determinare quale sia il mio dovere nelle varie situazioni della mia vita. Kant risponde con il cosiddetto principio di universalizzazione: quando voglio sapere se l'azione che voglio mettere in pratica è moralmente accettabile o meno mi devo chiedere "è opportuno che la mia azione sia generalizzata?". Ad esempio per sapere se è moralmente giusta una menzogna devo chiedermi "possono volere che tutti gli uomini dicano bugie?" ed essendo io un essere razionale risponderò di no. In ciò consiste la prima formulazione che Kant fornisce dell'imperativo categorico nella "Fondazione della metafisica dei costumi".

La seconda formulazione sostiene che l'uomo apparterrebbe al cosiddetto "regno dei fini", una comunità ideale di persone libere che rispettano ciascuna la dignità dell'altra. Di conseguenza l'uomo, essendo un fine, non può essere trattato come mezzo per il nostro egoismo e per i nostri desideri.

La terza formulazione riguarda il fatto che la volontà, in base alla massima, può considerare sè stessa come universalmente legislatrice. In altre parole, quando la volontà agisce in nome della legge morale, deve risponde soltanto a sè stessa e nessun altro imperativo esterno. Ne consegue che l'uomo è contemporaneamente suddito e legislatore.


Il rigorismo etico

Un altro aspetto dell'etica kantiana è che non basta nei fatti conformarsi al dovere, perché secondo lui bisogna avere la convinzione interiore che è giusto fare ciò che la legge comanda. Altrimenti ricadiamo nel campo della legalità, ma non in quello dell'agire morale.

Per Kant la volontà è indipendente sia dalla natura fisica sia psicologica (senza riferimenti ad emozioni e sentimenti), quindi si tratta di una morale estremamente severa. Kant riconosce che l'uomo non è pura razionalità, tuttavia lo invita a considerare l'etica come spazio di responsabilità del soggetto e l'agire morale come quel "di più" che serve all'uomo per elevarsi al di sopra del sensibile (e del naturale).

Assistiamo ad un'ambivalenza dell'essere umano: da un lato è sottomesso alle leggi della natura ed all'ordine casuale del piano fenomenico. Dall'altro, in quanto dotato di volontà, ha accesso al mondo noumenico dei fini della libertà (alla ragione gli era negato).


Morale e religione

L'unico fondamento della moralità è la ragione umana. Da questo presupposto derivano importanti conseguenze per quanto riguarda la concezione di Dio e la religione:

- nemmeno Dio può essere considerato fondamento della moralità à chi agisce in vista del premio eterno o per paura della punizione divina non agirebbe moralmente;

- la religione, al contrario, ha una connessione con la morale à tuttavia non è la morale ad essere fondata sulla religione, ma la religione ad essere fondata sulla morale. Infatti le sue dottrine fondamentali, quella dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio, non sono altro che postulati della ragion pratica.

Il filosofo analizza il "sommo bene": è un concetto che prevede la realizzazione contemporanea di entrambe virtù e felicità, due aspetti che solitamente secondo Kant sono disgiunti, nel senso che uno esclude l'altro. Infatti le persone virtuose raramente sono felici, mentre noi uomini abbiamo la forte esigenza di pensare che chi agisce per dovere meriti anche la felicità.


I postulati della ragion pratica

Le soluzioni al problema virtù / felicità appena esposto sono, a partire dalla morale, tre postulati:

- un Dio che, in quanto onnisciente e onnipotente, garantisca una felicità proporzionata alla virtù e un aldilà in cui sia possibile realizzare questo sommo bene (se non esistesse tale possibilità, allora le azioni virtuose sarebbero vanificate e la morale non avrebbe senso);

- l'immortalità dell'anima à dato che il sommo bene non si può realizzare nella vita terrena, si deve ammettere che l'uomo disponga di un tempo illimitato.

Si noti che Kant non intende dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio e dell'anima immortale, ma soltanto riconoscerne la necessità pratica.

- la libertà à senza di essa l'imperativo morale non avrebbe senso (il "tu devi" presuppone il fatto che "tu puoi").

Questi postulati comportano che sul piano pratico la ragione ammetta proposizioni inammissibili dal punto di vista teoretico: è in questo senso che Kant parla di primato della ragion partica rispetto alla ragion pura.

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